Cinque videogames da giocare ad Halloween

E come tutti gli anni, ci ritroviamo sempre in quel periodo in cui l‘oscurità e il mistero domina le nostre serate, specialmente nella notte di Halloween, dove milioni di bambini e non si dilettano a vagare per la città travestiti da mostri, vampiri e qualsivoglia creatura terrificante. Tuttavia per chi non avesse programmi per il 31 ottobre, con questa interessante Top potrete trovare delle valide alternative per il vostro Halloween da paura.

Nella nebbia di Silent Hill…

E partiamo subito con il classico dei classici, giusto per mettervi ansia passeggiando tra la nebbia cittadina. Rilasciato nel 1999, il caro vecchio Silent Hill è praticamente perfetto per accompagnarvi durante la notte a suon di mostri piramidali e dalle stranezze più disparate. All’interno del gioco impersonerete Harry Mason alla ricerca della figlia adottiva di sette anni scomparsa nella nebbia della tranquilla cittadina di Silent Hill appunto. Il titolo offre ben cinque finali alternativi di cui uno visibile solo dopo aver completato il gioco come determinate condizioni. Quindi, se siete così messi male da adorare la nebbia — o abitate sopra l’Arno — , Silent Hill è il videogame che fa per voi.

P.T. di papà Kojima

Distribuito nel 2014, P.T. che sta per Playable Teaser, non è altro che un teaser interattivo in cui un protagonista sconosciuto si risveglia in un corridoio molteplici volte, come in un loop, ma con piccole inquietanti variazioni. Man mano la situazione acquisterà un senso ed essendo targato Kojima, la qualità di trama e scenario di certo non manca.

A cena con Resident Evil 7

Se proprio avete voglia di un bel arresto cardio-circolatorio la soluzione migliore è giocare Resident Evil 7: Biohazard col supporto VR. Rilasciato nel gennaio del 2016, RE7 è l’ennesimo titolo di casa Capcom, in cui nostri antagonisti saranno una tenera famigliola dai gusti alimentari discutibili. Essendo un titolo con visuale in prima persona non c’è niente di meglio di un visore VR e un pannolone per adulti per rendere il tutto più coinvolgente ma senza rischiare di macchiare le proprie mutande.

Monache rosse e vecchietti seminudi

Se siete degli amanti degli hideandseek come Friday the 13th, uno dei migliori del genere è proprio Remothered: Tormented Fathers, del designer italiano Chris Darril. Accolto ottimamente dalla critica, vincendo numerosi premi, come miglior indie, miglior horror, miglior gioco italiano e alcuni Game of The Year. La trama si svolge tra le pareti di casa Felton, in cui la protagonista principale, Rosemary Reed deve scappare dalle grinfie del padrone di casa, mentalmente instabile che, seminudo, rincorrerà la protagonista con una falce, affiancato da una monaca vestita di rosso. Proprio un bel titolo per passare il tempo rincorsi da vecchietti in giro per casa, anche se detta non suona poi così bene.

Xenomorfi spaziali

Concludiamo questa Top con un bel titolone horror, ma non troppo, Alien: Isolation, la cui trama è ambientata ben 15 anni dopo il primo lungometraggio. Come tutti gli horror l‘obiettivo più importante sarà quello di non morire malamente braccati dagli xenomorfi, capaci di correre come Usain Bolt nel 2009. Un bel mix di spazio, alieni e giocate a nascondino. Che volete di più?

Beh che dire “follettini e follettine” con questo si chiude la nostra top da cagarsi in mano per Halloween, speriamo di avervi soddisfatto e sopratutto di avervi messo paura, MHUAHAHA!!!




I Soprano: Shakespeare, la Mala e la rivoluzione “Made in America”

Sapete qual è il punto forte dei drammi e delle commedie di William Shakespeare? I monologhi. Tramite questo espediente, il drammaturgo è riuscito a mettere a nudo i moti interiori dei propri personaggi, siano essi giovani innamorati di famiglie eternamente rivali o Re scozzesi completamente fuori di testa che bramano solo il potere. Con il monologo aprono le porte del loro animo e lo spettatore conosce ogni cosa che passa per la testa dei protagonisti. Perché lo scrittore di Stratford-upon-Avon, circa 500 anni fa, aveva capito che l’immedesimarsi con i personaggi è fondamentale. Il pubblico ha bisogno di raffigurarsi in questi soggetti complessi, spesso aristocratici o di alto lignaggio, ma pur sempre esseri umani. Al teatro, insomma, il monologo spacca.

La televisione è un’altra cosa. È follia anche il solo pensare di mettere un qualsiasi personaggio davanti a una telecamera e fargli sciorinare monologhi rivolgendosi al pubblico in maniera diretta. Uno spettatore medio spegnerebbe la TV dopo nemmeno cinque minuti. Bisogna creare un ulteriore elemento che permetta tutto questo, parlare da soli non basta, ed è così che comincia la rivoluzione de The Sopranos, serie televisiva prodotta dall’emittente privata HBO e scritta dall’autore David Chase, introducendo sin dalla primissima puntata un elemento nuovo, sia nel teatro “shakespeariano”, perché ancora non esisteva, sia in televisione, perché nessuno l’aveva ancora introdotta come parte integrante della vicenda: la psicanalisi.
Il protagonista è l’italo-americano Anthony “Tony” Soprano, astro nascente della famiglia mafiosa dei DiMeo, che spadroneggia da anni nello stato del New Jersey, Stati Uniti. Un uomo alto, massiccio, un po’ stempiato che veste con camice smanicate e pantaloni di lino. Ha ben due famiglie a cui pensare: la prima è quella composta dalla moglie Carmela, il figlio Anthony Junior e la figlia Meadow; la seconda, non meno importante, è formata dal suo vice Silvio Dante, i luogotenenti Paulie Gualtieri, Sal “Pussy” Bompensieri e il nipote Christopher Moltisanti. Entrambe le famiglie, in un modo o nell’altro, sono causa di forte stress per lui: la prima è da proteggere, la seconda invece è da tenere in piedi. Avere due nuclei da tenere a galla non è semplice, e Tony se ne rende conto a sue spese, dopo un violento attacco di panico durante il compleanno del figlio Junior. Scopre che non è invincibile, che le sue paure e i suoi demoni non possono rimanere ancorati alla sua anima senza conseguenze. Chi glielo doveva dire che sarebbe dovuto andare da una strizzacervelli come la dottoressa Jennifer Melfi, per essere in grado di mandare avanti le baracche?
La famiglia e la psicanalisi. Ecco due punti fondamentali, inscindibili nel personaggio di Tony. Un padre affettuoso da una parte e un Boss duro e spietato dall’altra, due personalità che si incontrano dentro uno studio circolare. La dottoressa Melfi rappresenta il punto di unione, ma anche la valvola di sfogo del nostro protagonista, sullo sfondo dell’America di fine secolo che si evolve e, dopo l’11 settembre, ha paura come lui. Il risultato è anche una serie estremamente onirica, che gioca col sogno in momenti cruciali della trama continuamente.

The Sopranos si è guadagnato l’appellativo di serie televisiva “Pop” non solo per il suo modo di trattare la realtà di un Boss proveniente da Avellino, ma perché racchiude anche elementi meta-cinematografici e dettagli visivi e sonori che hanno fatto la differenza. Per prima cosa la scelta del cast: gran parte degli attori hanno partecipato a film e collaborato con registi che hanno fatto la fortuna del genere gangster movie della New Hollywood: da Il Padrino di Francis Ford Coppola, passando per Prove Apparenti di Sydney Lumet, fino ad arrivare a Quei Bravi Ragazzi di Martin Scorsese. Quest’ultimo in particolare viene sviscerato da continui rimandi e citazioni all’interno della serie, ma anche le altre opere vengono omaggiate, perché The Sopranos è anche questo, un continuo “grazie” al genere cinematografico da cui trae ispirazione. Lo sviluppo dei personaggi, nel corso delle sei stagioni, è calcolato alla perfezione. Attori e attrici come Michael Imperioli, Dominic Chianese, Edie Falco o Lorraine Bracco, solo per citarne alcuni, danno una profonda caratterizzazione e riescono a mettere alla luce i profondi chiaroscuri dei loro doppi televisivi. Ma la vera star è lui, James Gandolfini, che nell’interpretazione di Tony Soprano regala alla televisione un gangster cattivo, impulsivo, forte, ma con molti demoni da combattere che ritornano dal suo passato tormentato e dal rapporto, mai totalmente risolto, con i genitori Johnny e Livia Soprano. Il tutto combinato a una regia notevole, un ulteriore passo avanti rispetto alla televisione precedente. E la musica, anche lei, considerata come “personaggio”, è ricercata in ogni scena in cui appare: si passa dai Rolling Stones a Pavarotti, dai Journey fino a Jovanotti.

In definitiva: una delle più importanti opere “Made in America”, citando il titolo della puntata finale della serie, che ha rappresentato il punto di svolta nella serialità dal 2000 in poi. Parliamoci chiaro: Breaking Bad, Game of Thrones o Stranger Things non sarebbero mai nate, se non fosse stato per The Sopranos. Lo zenit di quella che viene definita “Età dell’oro delle serie TV”. Se non l’avete vista, male: e da vedere, rivedere, e  amare. Perché, di Tony Soprano, ce n’è uno solo.




The Boys – Molto super, poco eroi

Quella di The Boys, la serie televisiva prodotta quest’anno da Amazon e distribuita sulla personale piattaforma di streaming online da quest’estate, deve essere stata una bella sfida. Una gatta da pelare, di quelle con convulsioni e crisi epilettiche continue, che si contorce e annaspa nel proprio vomito.
Quando adatti un fumetto di Garth Ennis una delle preoccupazioni principali è: come riportare la carica di violenza ed estrema volgarità senza che risulti controproducente?Stiamo parlando di un mostro sacro del fumetto contemporaneo, a cui bisogna portare il giusto rispetto, riverenza e devozione. Ma dobbiamo anche essere realisti e accettare una grande verità, da cui non scappa nessuno, che sia un dio o un comune mortale: “adattare” un’opera richiede sempre un compromesso.
Bene, dopo questa premessa, andiamo al dunque: com’è l’adattamento di The Boys?Sorprendente, ecco com’è.

Non ci scostiamo tanto dalla trama del fumetto, che suona più o meno così: i supereroi esistono e vivono in mezzo a noi: salvano vite e combattono il male gestiti dalla Vought America, una potentissima multinazionale che ne pubblicizza le gesta con saghe cinematografiche, comic book, merchandasing e veri e propri eventi organizzati. Ma coprono anche gran parte dei loro casini. Già, perché i nostri cari “Super” ne combinano di cotte e di crude, tra sesso promiscuo, droghe e tutto quello che vogliono per appagare i propri istinti. Inoltre, nelle loro missioni, capita spesso che tanti innocenti tirino le cuoia. Ma proprio tanti. Per questo ci sono loro, i “Boys”, che si occupano di  “tenere in riga” i supereroi, anche con la forza bruta se necessario. E credeteci, se ne servono più del solito.

Nel confronto serie tv/comic, l’autore Erik Kripke (creatore della serie Supernatural) ha dovuto necessariamente smorzare i toni contenuti nel fumetto per cercare di rendere la storia più appetibile a una fascia di pubblico più ampia (e meno impressionabile…). La serie gioca bene le sue carte, riuscendo a offrire una buona dose di gore, ma senza esagerare. A questo si unisce un buon sviluppo dei personaggi durante la storia, meno affrettato rispetto al fumetto ma non per questo meno interessante: se nel fumetto i Boys sono già fatti e completi (a eccezione di Hughie, che seguono dinamiche simili nelle due versioni dell’opera), nella serie televisiva vengono presentati lentamente. Ma non per questo la trama ha un basso ritmo, anzi, permettendo allo spettatore di abituarsi agli elementi della squadra, uno più sciroccato dell’altro.
Anche la regia è decisamente ottima, grazie anche all’uso, da parte di Amazon Prime Video, di un taglio più vicino a quello cinematografico per le proprie produzioni, con inquadrature ben composte e che fanno da contraltare alle sequenze splatter e gore che si dipanano durante la storia. A queste si aggiunge la fotografia, in cui il forte contrasto luce/ombre, anche negli esterni, dona quell’aura di “sporco” che riesce a emanare anche il fumetto.

Anche i personaggi meritano attenzione. In una storia dove i supereroi sono i cattivi e gli eroi della situazione sono ancora più cattivi, è una cosa da non sottovalutare.
La scelta del cast principale è sembra riuscita, con qualche modifica qua e là sempre per esigenze narrative e di adattamento (Tra i personaggi “nuovi” quello di Translucent, supereroe al centro delle prime puntate della serie e interpretato da Alex Hassell). Il nucleo dei Boys rimane inalterato: lo psicopatico e vendicativo Billy “Il Macellaio” Butcher, interpretato da Karl Urban; il timido ma intelligente “Piccolo” Hughie Campbell, interpretato da Jack Quaid; l’esperto d’armi e squilibrato “Il Francese”, interpretato da Tomer Kapon; il nerboruto e composto “Latte Materno”, interpretato da Laz Alonso;  la misteriosa e brutale “Femmina”, interpretata da Karen Fukuhara. Gli attori dunque, incalzano bene non solo la fisionomia dei personaggi originali ma anche la loro natura fuori di testa, riuscendo nell’intento di rappresentare questi grotteschi individui senza andare sopra le righe. Si riesce mantenere inalterata così la loro natura folle, da anti-eroi su tutta la linea.
Una nota di merito va data poi al “Super” più forte, complesso e allo stesso tempo maligno che ci sia in tutta la serie: Il Patriota. La resa da parte di Antonz Starr è davvero d’applausi, riuscendo nel difficile intento di rappresentare il supereroe più forte e psicologicamente pericoloso del pianeta in un’aura di sacro egocentrismo e opportunismo. Rispetto al fumetto, la sua figura viene resa più  “umana” ma poiché prova sentimenti quasi sempre contorti e abominevoli, questo aspetto è un modo per creare maggiore introspezione, forse superando il prodotto originale.

Tralasciando il fumetto da cui è tratto, come si evince, è una serie televisiva molto violenta. Non solo nel gore di alcune scene (non mancano corpi mutilati ed esplosioni di viscere), ma anche nella rappresentazione grottesca che viene data ai supereroi (più da mostri senza scrupoli che da divinità benevole) e di chi li combatte (gente come Butcher, disposto a tutto per raggiungere il suo desiderio di vendetta), oltre a una velata critica alla  “governance” sui comic e cinecomic in tempi recenti, portata alle estreme conseguenze (il paragone Disnez/Vought America nel corso della serie è palese, che però si amalgama bene alla storia e dal suo contesto narrativo)
E con già una seconda stagione annunciata, che siate fan del fumetto o meno, vi suggeriamo di recuperarla. Sporcatevi le mani: I “Boys” vi faranno vedere come si fa.




Come sta cambiando l’industria del gioco nel corso degli anni

L’offerta e la fruizione dei giochi e dei videogiochi sta cambiando, nel corso di questi ultimi anni. Già durante il biennio 2014-2015 avevamo notato come le abitudini di molti utenti fossero cambiate in maniera spesso radicale, vista la disaffezione per PC fisso e laptop, a favore di smartphone e tablet. Tuttavia gli amanti dei videogames erano rimasti fedeli all’idea di supporto quale la console, visto che la tecnologia non era ancora capace di soddisfare le loro elevate esigenze, sia per quanto riguarda il gameplay, fine a se stesso, sia per quanto riguarda aspetti estetici come grafica, comparto audio e altro. Oggi però, grazie alla tecnologia che ha effettuato in questi anni passi in avanti, si sta discutendo circa la possibilità di abbandonare il concetto di hardware e di supporto con memoria rigida, a favore dello streaming e del cloud.

Di questo argomento si è discusso durante le scorse settimane a Los Angeles, in un convegno annuale noto come E3, la più importante fiera che si occupa esclusivamente di intrattenimento elettronico. A fare notizia questa volta è stato il tema dell’evento, incentrato in larga parte sul concetto di cloud gaming, dove nonostante l’assenza si è capito che presto i nuovi protagonisti di questo settore saranno proprio Google, Amazon e Apple. Tutto quello che bisogna quindi comprendere è come l’industria del gioco online, stia continuando a produrre un utile e un fatturato importante, cambiando però radicalmente filosofia, visto che stiamo attraversando l’epoca d’oro del multi-device dove solo i giochi in streaming continueranno a produrre risultati in attivo e in positivo, come del resto sta già avvenendo anche per le piattaforme casino online che si sono già attrezzate al fine di ottenere nuovo traffico da parte di utenti interessanti al gioco online in modalità live, attraverso smartphone e tablet, elemento ormai imprescindibile, per quanto concerne il comporto del gambling e del gaming, stando agli ultimi dati pubblicati durante il 2019.

Del resto basta analizzare i dati dell’ultimo anno, per quanto riguarda il comparto del gaming, per stabilire quale sarà la rotta e il trend di questo 2019: il gioco online è quasi totalmente spostato e praticato attraverso dispositivi mobili quali smartphone e tablet. Anche per il settore dei videogiochi le console e i PC fissi avranno vita piuttosto breve, non è certo un caso se l’unica console che oggi vende è la Nintendo Switch, una sorta di ibrido trasportabile, a metà tra console di gioco classica e tablet-telefono evoluto. Tuttavia oggi i giochi vengono visti e concepiti attraverso la visione di servizio multimediale, come capita per altri audio-visivi come Netflix, Prime Video e Now Tv.

Ogni formula di intrattenimento sta facendo i conti con il concetto di obsolescenza programmatica, dove però più importante dello strumento e del mezzo, risulta essere il fine utile, lo scopo del gioco. Stiamo facendo un’analisi dopo quelli che sono stati oltre 20 anni di upgrade tecnologici di tipo lineare, basati su guerre di posizione e porzioni di mercato davvero importanti, che oggi semplicemente stanno scomparendo, lasciando il posto allo streaming gaming, ai browser games e naturalmente al concetto di cloud che avanza, come già accaduto nell’industria della musica prima e in quella degli audiovisivi successivamente.

Non è un caso se i principali produttori di giochi e di console, hanno paventato la possibilità che da qui ai prossimi 10-15 anni le console saranno dismesse del tutto, con una conseguenza per chi le produce e le vende, che avrà sicuramente effetti evidenti sull’economia di questo settore. Si è discusso inoltre a Los Angeles, di quella che sarà l’offerta in termini di gioco, dove la competizione nei prossimi anni sarà del tutto differente, rispetto a ciò che abbiamo visto e previsto per il prossimo decennio, nel campo del gaming.




Gli open-world più grandi di sempre

Ormai diventato uno dei generi più amati di sempre, gli open-world sono videogames caratterizzati da una abnorme quantità di mappa visitabile, e la sua estensione ha da sempre dato via a gare tra le software house. In questa classifica vedremo le mappe più grandi mai realizzate, alcune sfruttando qualche piccolo trick.

The Crew non si infama!

Con una riproduzione degli Stati Uniti d’America di ben 5 mila chilometri quadrati, The Crew, racing game di Ubisoft, apre la nostra classifica, basta pensare che per attraversare la mappa, da costa a costa a bordo di una delle auto più veloci, occorrono circa 45 minuti di gioco reali. Un’estensione parecchio enorme, considerando che poi gli sviluppatori hanno anche dovuto riempire l’ambiente di gioco, ma siamo solo all’inizio.

È tutta questione di Fuel

Un’altro racing game, un’altro posto in classifica con Fuel, con i suoi esorbitanti 14.400km² di mappa, più o meno quanto l’estensione di tutti i 25 parchi nazionali italiani messi insieme. Nonostante la spropositata ampiezza il titolo offre molteplici ambienti, dai deserti più aridi, alle montagne più ripide, di certo non mancano i panorami da visitare.

Un po’ di jogging con The Elder Scroll II: Daggerfall

Saliamo sul podio con un fuoriclasse, The Elder Scroll II: Daggerfall, e una mappa assurdamente enorme, parliamo di ben 160.000km², anche se c’è da specificare che queste dimensioni sono ottenute in modo procedurale, cioè gli ambienti di gioco vengono creati e distrutti ad ogni passaggio, rimanendo comunque gli stessi ad ogni passaggio. Per percorrere l’intera mappa dalla cima alla base occorrono 70 stressanti ore, su YouTube trovate facilmente i video (ovviamente divisi in un paio d’ore ciascuno).

Minecraft, a due cubi da qui

Chi oggi non conosce Minecraft di Mojang? Un titolo che tra l’altro ha da poco superato le vendite globali di Tetris e di fatto è diventato il videogame più venduto della storia. Ma oggi parliamo delle sue straordinarie estensioni, per anni si è pensato che la sua mappa “infinita” fosse limitata dall’hardware o dal codice stesso, successivamente fu calcolato che le dimensioni di Minecraft coprono per 8 volte la superficie terrestre, per un totale di 4 miliardi di km², anch’essi creati in modo procedurale.

Il centro della galassia con No Man’s Sky

Qui tocchiamo letteralmente i confini dell’infinito, infatti No Man’s Sky, che si potrebbe anche definire un open-universe ha delle dimensioni a dir poco inconcepibili, con 18.446.744.073.709.551.616 pianeti è il nostro numero 1 in classifica, visitando tutti i pianeti per un solo secondo ci vorrebbero 585 miliardi di anni per visitarli tutti, insomma se avete deciso di esplorare tutto il gioco fatevi curare. Creato ancora una volta in modo procedurale, l’universo del gioco ha dimensioni tali da rendere altamente improbabile incontrare altri giocatori in multiplayer.




Top 5: i Migliori Giochi di Maggio 2019

Nonostante il periodo estivo sia alle porte, il bel tempo non si è ancora deciso ad arrivare in pianta stabile e cieli minacciosi hanno turbato le nostre giornate: così non è per quanto riguarda il mondo dei videogiochi che, tra sorprese e delusioni, non manca di entusiasmare. Andiamo quindi a vedere quali sono stati i migliori giochi di questo uggioso maggio.

#5 Shakedown Hawaii

Da Vblank Entertainment, autori del divertente Retro City Rampage, arriva Shakedown: Hawaii, titolo che, come il precedente, si rifà al primo capitolo di GTA. Qui non avremo più citazioni provenienti da Ritorno al Futuro, ma impersoneremo un anziano CEO di un’azienda sull’orlo del fallimento a causa della saturazione del mercato tecnologico: starà al figlio cercare di salvare la compagnia… usando soprattutto mezzi illeciti!
Il titolo convince per art-style, ispirato alla grafica 16 bit e per la modalità campagna, colma di umorismo becero e violenza a mai finire. Divertono anche le sfide e il free roaming, dove saremo liberi di seminare morte e distruzione a ogni angolo. Shakedown: Hawaii è un titolo da non sottovalutare e che potrebbe regalare ore di divertimento sfrenato e sboccato, come da attitudine.

#4 Dauntless

Un cataclisma ha distrutto il mondo, liberando dei mostri famelici chiamati Behemoth, capaci di decimare la popolazione: toccherà ai cacciatori porre fine a questa battaglia. Questo è l’incipit di Dauntless, action RPG free to play disponibile su PC, PS4 e Xbox One: il titolo si ispira a Monster Hunter, arrivando quasi a sfiorarne il plagio, ma rispetto al titolo Capcom, l’opera prima di Phoenix Labs si distingue per uno stile personale che ben si sposa al mondo di gioco. Affrontare i Behemoth è una sfida ardua e la collaborazione con i nostri compagni di caccia risulterà importante, se non fondamentale. Dauntless è un titolo da non sottovalutare vista la sua natura free to play, essendo ben bilanciato anche nelle microtransazioni; inoltre, essendo cross-platform (al momento solamente tra PC e Xbox One) può regalare ore di divertimento sia in singolo che in compagnia, soprattutto a chi cerca un’alternativa gratuita a Monster Hunter.

#3 Rage 2

In un mondo selvaggio dominato dall’Autorità, fazione senza freni inibitori capace di sterminare l’unico bagliore di resistenza rimasto, starà a noi riuscire a ricostruire tutto da zero, creando alleanze potenti atte a vendicare la nostra fazione. Su questa base poggia Rage 2, seguito dell’FPS di ID Software uscito ben otto anni fa, che questa volta si avvale della collaborazione di Avalanche Studio e di Bethesda.
Il titolo fa sfoggio di un’estetica a metà tra Mad Max e Dune, racchiudendo un lore interessante e ben illustrato nelle differenze tra le varie fazioni. Convince anche il gunplay dove, tutta l’esperienza della software house fondata da Carmack e Romero, viene fuori con un feeling davvero invidiabile. Purtroppo il titolo incespica in due fattori fondamentali come la struttura dell’open world, molto vasto ma anche parecchio vuoto, e la campagna principale della durata di sole otto ore, davvero breve per un titolo di questa caratura. Nonostante tutto, Rage 2 sfoggia un carisma e una struttura di tutto rispetto, sperando che i prossimi DLC in arrivo riescano a tirare fuori un potenziale non interamente espresso.

#2 Assetto Corsa: Competizione

Dopo aver sopreso e sbalordito gli appassionati delle simulazioni di guida, l’italiana Kunos Simulazioni torna alla ribalta con Assetto Corsa Competizione: messo da parte il format generalista del precedente capitolo, il team con sede a Formello, ha deciso di puntare tutto sul Blancpain GT 2019 e su una maggiore importanza alla simulazione dura e pura, grazie anche al supporto dell’Unreal Engine 4, capace di risaltare ancora di più il motore fisico usato in passato. Non vi sono solamente migliorie tecniche, ma anche nel gameplay, visto che è stato migliorato il supporto ai joypad, permettendo così di esser goduto anche da chi non è avvezzo alle simulazioni e chi non è in possesso di volante e pedaliera.
Kunos Simulazioni ha intrapreso la più difficile delle strade, essendo Assetto Corsa Competizione un titolo più specialistico e meno indicato verso il pubblico generalista, riuscendo comunque a offrire una simulazione automobilistica meritevole di esser nominata regina del genere.

#1 A Plague Tale: Innocence

Francia, 1348: la Guerra dei Cent’anni è alle prime fasi, mentre i ratti portatori della peste nera stanno decimando gran parte della popolazione europea. In tutto questo, Amicia e Hugo De Rune, giovani ereditieri di una ricca famiglia, vedranno le proprie vite assumere una svolta pericolosa, a causa dell’inquisizione cattolica alla ricerca del giovane ragazzo. Così inizia A Plague Tale: Innocence, action-adventure in terza persona che segnala anche l’entrata diretta nel mondo videoludico di Asobo Studio.
Il titolo si ispira fortemente a due capisaldi del genere come The Last of Us e soprattutto Brothers: A Tale of Two Sons. Controlleremo principalmente Amicia, che dedicherà la sua vita a proteggere il fratellino dai pericoli di una delle ere più cupe della storia umana. Il titolo brilla per una narrazione di qualità, che ben racconta lo sviluppo dei personaggi e la pericolosità dei cattivi, ma anche per un gameplay vario e completo, capace di passare da fasi puramente stealth, a sezioni di puzzle solving, quest’ultime uno dei punti di forza del titolo d’Oltralpe. Nonostante qualche lieve incertezza tecnica, A Plague Tale: Innocence convince per la varietà del gameplay e per l’atmosfera lugubre che ben restituisce i cupi tempi medioevali, risultando una sorpresa ben gradita nel panorama ludico attuale.




Nel Football Manager che vorrei, regen a cinque stelle e 666

Football Manager è più di un normale gestionale calcistico. È parte della vita di ogni allenatore virtuale che si rispetti, talmente tanto da costringerci a compiere azioni che “normalmente” non nessuno farebbe: basta chiedere a chi ha affrontato una stagione con la Lazio mentre la moglie era in travaglio, per esempio; oppure al conteggio delle mie ore passate su FM dal 2012 a oggi, più di 5000 giri d’orologio passati a imprecare contro i movimenti sbagliati dei miei difensori o a esultare per una promozione in Serie A col Palermo ottenuta sul filo di lana.
Insomma, come diceva Robbie Williams, «è la cosa migliore che abbia giocato in vita mia», ma è sempre così? I forum, d’altronde, traboccano di suggerimenti degli appassionati diretti agli sviluppatori di Sports Interactive. Quindi, da buon fan, mi unisco a loro: ecco cinque cose che vorrei su Football Manager 2020.

#1: più elementi ruolistici

“Ma Football Manager è un manageriale, mica un GDR” direte voi. Eppure Miles Jacobson, head director di Sports Interactive, intervistato da PC Gamer, ha detto «è uno strategico, ma anche un GDR. Ha più personaggi non giocanti (o NPC) di qualsiasi altro gioco di ruolo al mondo, permettendo di creare una storia unica, completamente diversa da giocatore a giocatore». Proprio perché FM è una simulazione con elementi ruolistici, c’è bisogno di sentire la crescita del nostro allenatore virtuale. Per questo vorrei che in FM 2020 si potessero finalmente allenare le giovanili dei club, magari delle serie inferiori, non avendo requisiti particolarmente alti, imitando in qualche modo il percorso di alcuni ex calciatori, poi diventati allenatori, come Fabio Grosso, passato dalla primavera della Juventus all’Hellas Verona.
E a proposito degli elementi GDR, sarebbe molto apprezzato un intervento mirato allo stipendio che percepiamo durante la stagione, cosa che, al momento, è praticamente inutile. Perché non stimolare l’aspetto ruolistico del gioco, usando proprio i soldi che riceve il nostro allenatore virtuale, nel miglioramento delle skill tramite vari corsi da frequentare, seguendo il modello dei patentini? E a proposito di quest’ultimi, sarebbe ancora più intrigante vedere la nostra reputazione crescere in base ai risultati ottenuti durante le stagioni, rispetto ai patentini ottenuti. Non vedo perché un allenatore senza patentino che vince un campionato di Prima Categoria debba valere meno di qualcuno più qualificato, ma reduce da un esonero o da una retrocessione. D’altronde, Maurizio Sarri è partito proprio ottenendo promozioni nei campionati inferiori, per poi compiere la scalata che lo ha portato ad allenare il Chelsea

#2: Sui giovani d’oggi non ci scatarro su

I cosiddetti newgen (o regen), ovvero i giovani creati dal gioco che, in un periodo della stagione, arrivano nel nostro settore giovanile. Amati da molti, odiati da alcuni, un buon lavoro di scouting può permetterci di scovare quel regen dalle potenzialità incredibili e che potrebbe migliorare, grazie alla mano dello staff e al tutoring di qualche giocatore più esperto. Purtroppo, i giovani soffrono di un problema atavico della serie, dovuto al loro mercato: molte volte, quando finalmente si trova quel giovane dall’abilità potenziale da almeno quattro stelle su cinque, e si cerca di acquistarlo, la squadra detentrice del cartellino “spara” pretese impossibili (per esempio, 50 milioni per un giocatore che al momento vale 300.000€). Se questo modus operandi è plausibile per un giocatore ritenuto fulcro di una squadra (citando un esempio di qualche anno fa, i 100 milioni di euro richiesti da Urbano Cairo per Andrea Belotti del Torino), trovo francamente insensato un salto così alto per un giovane che potrebbe avere sì grandi potenzialità, ma difficilmente usciranno fuori da una squadra dalle caratteristiche inferiori rispetto una squadra di mezza classifica in Serie A. D’altronde, nella scorsa sessione estiva di mercato, l’Empoli ha acquistato il cartellino di Antonino La Gumina dal Palermo per nove milioni…
A parte il folle mercato dei regen, trovo che sia più realistico veder arrivare nuovi giocatori nelle giovanili già dall’inizio della stagione, rispetto ai regen apparsi in Italia nel mese di marzo, quando la stagione calcistica si avvia alla conclusione. Chissà, magari potremmo trovarci in casa un potenziale exploit come Cutrone da inserire piano piano nelle gerarchie della squadra già dalla preparazione estiva.

#3: «stai zitto lo dici a tuo fratello»

Diciamoci la verità: le conferenze stampa su Football Manager sono sempre la solita solfa, noiose e ripetitive. Molti giocatori infatti, preferiscono affidarle al proprio allenatore in seconda e a questo punto: perché non inserire un po’ di “pepe“? Magari sempre affidandoci all’elemento ruolistico? Nel profilo del nostro allenatore troviamo la nostra reputazione dettata dai colleghi. Perché non inserire anche giornalisti e opinionisti al novero? Magari non è tanto di costume in Inghilterra come da noi (basti pensare alla lite Varriale-Zenga o alla recente querelle tra Adani e Allegri), però potrebbe dare quel quid in più che manca a FM. Volendo, si potrebbero sfruttare i dissapori contro i giornalisti di settore (o alcune fonti velenose nei nostri confronti) per indurre un silenzio stampa da parte della nostra società, atta a proteggere non solo noi, ma anche la squadra e il suo morale.

#4: Un po’ di comodità in più…

Football Manager è un gioco a cadenza annuale, come molti altri del genere: mi viene da pensare, per esempio, a Out of the Park Baseball. OOTP, così come FM, condivide l’immensa mole di dati e l’attenzione per il lato manageriale del cosiddetto diamante. Ma il titolo di Out of the Park Developments ha un vantaggio: la possibilità di migrare i salvataggi dal titolo precedente a quella nuova. Trovo assurdo che un titolo molto venduto come il manageriale di Sports Interactive non abbia questa comodità in più che sicuramente sarebbe gradita dai fan. Anche perché, affrontare una carriera lunga magari una dozzina d’anni, per poi essere costretto a ricominciare tutto da zero è, francamente, fastidioso. E credo anche che una scelta del genere aiuterebbe molti modder della scena, come Claassen, a non dover ricompilare una mole assurda di dati solamente per modificare qualche promozione o retrocessione.

#5: Un mondo migliore

A proposito di spunti da prendere da altri titoli, porto come esempio Motorsport Manager di Playsport Games e distribuito da SEGA, proprio come FM: una delle cose che più apprezzo di questo manageriale motoristico è la possibilità di votare il regolamento della stagione successiva, rendendo così il mondo di gioco più dinamico, aggiungendo un po’ di strategia in più, se pensiamo alla nostra scuderia. Tutto ciò potrebbe (e dovrebbe) essere applicabile anche su Football Manager, visto che il mondo del calcio è in costante evoluzione: è un po’ strano vedere la VAR disponibile in game nelle sole Serie A, Bundesliga e Liga quando, nella realtà, viene decisa l’introduzione della tecnologia a partire dagli ottavi di Champions League o nei prossimi playoff e playout di Serie B. Ma a parte l’applicazione di VAR e Goal Line Technology, sarebbe interessante vedere dei punti di penalizzazione in classifica dati dal gioco, senza dover intervenire obbligatoriamente nell’editor esterno: basta vedere l’ingarbugliata situazione della Serie B degli ultimi anni per avere un esempio. Per quanto sia una situazione complicata, il tutto darebbe quel tocco di realismo del quale Football Manager s’è sempre fatto alfiere. D’altronde, se viene simulata la brexit nel gioco, non vedo perché non si possa applicare lo stesso ragionamento anche per ciò che riguarda direttamente il mondo del calcio.




VR in the Box: la realtà virtuale di Nintendo

Seppur lenta, l’ascesa della realtà virtuale non pare arrestarsi, e anche Nintendo si butta nella mischia con il Toy-con 04 VR Kit, nuovo prodotto della linea Nintendo Labo.
Sulla falsariga dei precedenti kit, un’oretta piena verrà dedicata all’assemblaggio degli stravagantissimi controller “Do It Yourself”, poi basterà inserire la cartuccia e godersi la realtà virtuale in salsa Nintendo.

La grande N sfrutta qui la versatilità di Labo per fornire esperienze che i competitor rendono possibili solo acquistando periferiche esterne: se per avere un fucile in mano giocando con il PSVR è necessario l’acquisto di un AIM controller, qui è possibile costruire da sé un’arma con cui sparare, senza dover ricorrere ai controller classici. La risoluzione di Switch in dock può essere un ostacolo a chi ha già provato altri visori di sicuro più avanzati, ma questo non sembra spaventare la casa di Kyoto, che punta sulla creatività offrendo toy-con di ogni sorta come quello del cigno, le cui ali genereranno addirittura un po’ di vento (regalando agli utenti un ulteriore layer di realismo), quello dell’elefante, che sarà il tool per creare dei disegni in 3D, quello della fotocamera e quello della girandola.

La grande N ha aspettato tanto prima di gettarsi nella mischia del VR, e questo era di certo dettato da ragioni di studio di una tecnologia ancora delicata: il prezzo di lancio di 70€ è di certo il più competitivo a fronte di una VR ancora costosa sul mercato, anche se, come già criticato per i precedenti kit Labo in passato, al momento si tratta di investire di fatto su una sorta di super-demo di 60€ con dei controller DIY venduti per 10€.

Nintendo pare voler mandare un messaggio chiaro: un software, un kit DIY. L’unicità di questa esperienza, legata soprattutto al tenere con mano oggetti simili a quelli utilizzati nei giochi, spinge a credere che Nintendo difficilmente lancerà nei negozi un visore VR dai prezzi simili al Google Cardboard, senza software o controller DIY da accostarvi, non almeno in tempi brevi. Per quanto interessante sia il modellare un controller di cartone attorno al Joycon questo potrebbe costarci una fortuna ogni volta che un titolo debba accostare un’esperienza VR, senza considerare poi lo spazio da dedicare in casa per i controller già costruiti, specialmente se abbiamo collezionato anche i kit precedenti! In questi giorni sono stati rilasciati gli aggiornamenti per The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Super Mario Odyssey e in molti non sono rimasti soddisfatti per il fatto che le esperienze VR non aggiungono quasi nulla all’esperienza di base. Tuttavia la scelta di inserire queste nuove opzioni per due capisaldi dello Switch è secondo noi una scelta dettata dalla fretta di rendere il parco titoli per il VR immediatamente vario ma non necessariamente divertente o funzionale: nessuno dei due titoli è stato progettato con un esperienza VR in mente e perciò era comunque difficile aspettarsi un miracolo. Almeno i possessori avranno adesso tre titoli da sperimentare col visore ma per un esperienza VR pensata a 360° bisognerà aspettare ancora un po’. Sappiamo inoltre che lo sviluppo di Metroid Prime 4 è partito da capo: che includerà, visto che il mondo viene letteralmente visualizzato tramite il casco di Samus Aran, un esperienza VR incredibile?

Una domanda sorge comunque spontanea: le compagnie 3rd party potranno offrire in futuro alternative al Kit VR con dei controller più versatili per ogni titolo e senza includere software extra? Se così fosse vedremo molti più visori 3rd Party sugli scaffali, possibilmente costruiti con materiali migliori del cartone, e che potrebbero eclissare l’invenzione originaria Nintendo. Il lancio di questo Kit VR ha senza dubbio ottime premesse, ma adesso Nintendo, se non vorrà che altre compagnie ci pensino al posto suo, dovrà puntare a tutta quella fascia di pubblico che non ha intenzione di possedere il Toy-con Kit 04 di Nintendo Labo, né possedere miriadi di controller di cartone sparsi per casa, e potrebbe farlo con la semplice mossa di offrire un visore VR della qualità e del prezzo del Google Cardboard, con tutto quel che comporta (prima fra tutti l’assenza di ulteriori controller o software, o l’inclusione di accessori più versatili): una strategia semplice, che potrebbe portare ottimi frutti.




Top 5: i Migliori Giochi di Aprile 2019

Ad aprile il tempo migliora e le giornate si fanno più lunghe, ma non sono mancati i giorni di pioggia: in entrambi i casi, ogni clima è adatto per dedicarci al nostro hobby preferito! Vediamo quindi quali sono i migliori giochi usciti questo mese.

#5 Cuphead

Cominciamo con un porting, ma di qualità: l’apprezzato run n’ gun di Studio MDHR, con grafica ispirata ai cartoni degli anni ’30, arriva anche sull’ibrida Nintendo: Cuphead, dopo aver ammaliato i giocatori di Xbox One e PC, convince anche su Switch, in quella che è probabilmente, la versione migliore del titolo.
Impersoneremo Cuphead (e Mugman in caso di campagna cooperativa) nella lunga battaglia contro il Diavolo, che ha vinto al tavolo da gioco le loro anime. Sarà un lungo viaggio, tra livelli lineari classici dei platform 2D e boss variopinti e unici per design e comportamento. Un titolo originale nel panorama videoludico odierno, capace di regalare emozioni a raffica anche in portabilità.

Cuphead

#4 Anno 1800

Dopo i non esaltanti Anno 2070 e Anno 2205, torna la serie gestionale di BlueByte con quello che è il suo miglior episodio dai tempi di Anno 1404, ma non solo: infatti Anno 1800 si dimostra essere anche uno dei migliori gestionali degli ultimi anni.
Il titolo è ambientato durante la rivoluzione industriale, diviso tra una campagna narrativa, dove cercheremo di scoprire l’assassino di nostro padre oltre a sviluppare la nostra isola abbandonata, e una modalità sandbox, come da prassi per il genere. Anno 1800 convince soprattutto per l’interfaccia, non più colma di menù e schede, ma più snella e intuitiva, dove spicca la pianificazione per la futura costruzione di edifici, vero e proprio toccasana per il genere. Un ritorno che convince, per una serie che aveva il disperato bisogno di tornare ai gloriosi fasti di un tempo.

#3 Katana Zero

Opera prima dello studio Askiisoft e distribuito dalla solita Devolver Digital, sempre molto attenta verso questo tipo di produzioni, Katana Zero si presenta a noi come un action bidimensionale frenetico e molto violento.
Guai a definirlo un clone di Hotline Miami: il titolo creato da Justin Stander, è un concentrato di estetica fatta di neon e colori accesi, ispirata dalla moda synthwave e del revival anni ’80, oltre che di serratissimo gameplay senza pause. Ma ciò che sorprende è la cura per la narrazione, fatto di scelte multiple con possibilità di interrompere i dialoghi degli NPC, che rappresenta più che un mero intermezzo tra uno stage e l’altro. Devolver Digital si conferma faro della scena indie e Katana Zero, è la prima sorpresa videoludica di questo 2019 per i possessori di PC e Nintendo Switch.

#2 Days Gone

Un’epidemia zombie scoppia nel bel mezzo dell’Oregon, e il biker Deacon St. John, si ritrova catapultato in un vero e proprio inferno: questo è l’incipit di Days Gone, titolo Bend Studio uscito in esclusiva per PlayStation 4 dopo uno sviluppo travagliato.
Il gioco prende ispirazioni da serie quali The Walking Dead e Sons of Anarchy e pone le sue basi su uno sviluppo narrativo tipico di titoli Sony come The Last of Us, ma occhio a considerarlo un esercizio di stile: si tratta di un viaggio di crescita, tra orde di furiosi mostri da contrastare e vari gruppi come la setta religiosa dei Ripugnanti o i soldati della NERO, capaci di rendere complicata la nostra vita.
Days Gone è un titolo che centra il punto, nonostante la sua genesi non proprio tranquilla, e che potrebbe risultare un piacevole divertissement in attesa di titoli più blasonati.

#1 Mortal Kombat 11

Il picchiaduro più violento di sempre torna nella sua undicesima iterazione, probabilmente la migliore finora: infatti NetherRealm ha alzato l’asticella per questo Mortal Kombat 11, puntando tutto sul sistema di combattimento che, a suon di novità come i Krushing Blow e i Fatal Blow, restituiscono al giocatore un feeling impareggiabile non solo per la saga, ma anche rispetto ai precedenti giochi della casa di Ed Boon, come Injustice.
I match sono divertenti e tattici come non mai, e se le modalità offline non deludono, l’online presenta una doppia faccia: nonostante un netcode pulito e completo come raramente si è visto nel genere, delude la modalità Krypta, ridotta a un mero grinding, che spinge i giocatori verso le microtransazioni. Nonostante questo difetto, che si spera venga limato in futuro grazie al supporto della community, Mortal Kombat 11 si presenta a noi come una Fatality brutale e spettacolare, esattamente come il suo gameplay, meritando il primo posto del mese di aprile.




Google Stadia vs. The World

L’avvento di Google Stadia ha accelerato i tempi verso un futuro atteso da tutti. Del resto il digital delivery è sempre più una realtà prossima, con anche Sony e Microsoft che cominciano attivamente a sondare il terreno, cercando di capire quanto l’utenza sia ancora legata alla copia fisica o se cominci già a strizzare l’occhio al digitale. Gli approcci sono diversi, ma c’è un dato impossibile da ignorare: le console fisiche esistono ancora e l’avvento di PlayStation 5 e Microsoft Scarlett pare procedere costante.
Google, dunque, è stata fin troppo ambiziosa o Sony e Microsoft sono state troppo conservatrici? Analizziamo in dettaglio la situazione.

Forzare il cambiamento

Da quando il servizio Stadia è stato presentato, la domanda è stata una soltanto: riuscirà Google a gestire centinaia di migliaia di videogiocatori contemporanei sui diversi dispositivi? È una domanda importante, fare il passo più lungo della gamba è un rischio che il colosso di Mountain View non può certo permettersi.
Dal canto suo, la presentazione ha avuto successo, lasciando sbalorditi gli addetti ai lavori e meravigliando i videogiocatori che, improvvisamente, hanno visto cadere le catene che li vincolavano a un singolo hardware. L’importante è giocare, poco importa su quale supporto. Del servizio streaming ancora mancano alcuni dettagli, come la modalità di pagamento o se serva o meno il possesso di un gioco, ma di certo le luci della ribalta al prossimo E3 saranno sicuramente puntate verso questo nuovo inizio. LE caratteristiche tecniche ve le abbiamo già raccontate, sono sicuramente molto allettanti e capaci di portare il gaming su nuovi livelli, non solo per chi gioca ma soprattutto per chi sviluppa e produce, cambiando per sempre la faccia del mercato: l’aver disponibile tutto, subito e ovunque eliminerà all’istante aggiornamenti e add-on scaricabili e patch, il rilascio di demo e beta, nonché la distribuzione in generale con i publisher che dovranno cambiare strategia comunicativa, forse più diretta e personalizzata.
Il futuro sembra proprio roseo, un futuro arrivato molto presto e capace di prendere tutti alla sprovvista. Tra questi Sony, Microsoft e Nintendo, con lo sviluppo di nuove console in dirittura d’arrivo, in qualche modo già obsolete.
In questo periodo però, si sta sondando il terreno, con strategie diametralmente opposte: PlayStation Now è realtà e sembra funzionare abbastanza bene anche nel nostro paese, anche se ancora non vanta una libreria da capogiro. Il servizio Sony ha permesso a molti utenti PC di saggiare finalmente alcuni dei suoi titoli più importati (Bloodborne su tutti), completamente in streaming, un evento totalmente inedito e fino a poco tempo di fa inimmaginabile. PlayStation 5 è una console fisica, di cui sappiamo già le caratteristiche tecniche, che porta il gaming verso una reale next-gen; a questo punto però, next-gen non è riferito solo alla componente tecnica. Purtroppo Mark Cerny non si è sbottonato su streaming e servizi tangenti, ma le peculiarità della nuova console lasciano ben sperare, pur mantenendo un supporto ottico vista anche la retrocompatibilità con PlayStation 4.
E Microsoft? Proprio in questi giorni, la presentazione della nuova Xbox One S All-Digital, console interamente dedicata al digital delivery. Questa mossa, visto anche il prezzo di 229,99€, ha lasciato interdetti i più, visto che la stessa console con supporto fisico ha lo stesso prezzo se non addirittura minore. La via della casa di Redmond è dunque diversa, ibrida, presentando ancora la “classica scatola”, quasi per non disorientare l’utenza; una scelta senza dubbio interessante, e tutto questo lascia presupporre come anche Microsoft stia sondando il terreno, in preparazione della sua nuova console.

Il futuro degli altri

Alle 22:00 del 9 Giugno, Microsoft sarà chiamata a rispondere sul campo alla proposta allettante di Google e alle caratteristiche estreme di Sony. È chiaro come la divisione gaming del colosso di Bill Gates abbia imparato dai propri errori, puntando su una maggiore attenzione alla comunicazione e sui feedback della community. Proprio per questo la nuova Scarlett (nome ancora in codice delle nuova console) è un passo cruciale per il futuro del mercato, facendo saggiare probabilmente le caratteristiche del Project xCloud, definito come il “Netflix dei videogame”. Della nuova console si sa poco o nulla: è ovvio che sarà estremamente performante ma non è quello che interessa. Quello che conta adesso è la visione del futuro e l’approccio che Microsoft (come Sony del resto) avrà in questi mesi. Da giugno in poi, infatti, contando che Stadia uscirà a fine anno, potremmo avere un nuovo catalogo di scelta che non si baserà più sulle caratteristiche tecniche o sui titoli esclusivi ma sul tipo e sulla convenienza del servizio offerto. Questo apre un ventaglio immenso di possibilità, fatta di eventuali abbonamenti e fruibilità su diversi dispositivi. A questo proposito Apple non è rimasta a guardare: Apple Arcade non è ancora stato accostato allo streaming, certo, ma la presenza di un abbonamento per poter usufruire di titoli esclusivi è quasi certo. Questo aprirebbe il mercato a una concorrenza spietata e, nonostante l’approccio sembra essere ben diverso rispetto a Google, la casa di Cupertino sembra voler entrare a gamba tesa, sfruttando nomi altisonanti come Devolver Digital, Sega e Konami, facendosi via via strada nell’intricato mondo del gaming.
Nintendo rimane perora in disparte: se è vero che in Giappone è possibile giocare a Resident Evil VII e Assassin’s Creed: Odyssey in streaming su Switch, non si hanno ulteriori notizie sulle prossime mosse del colosso di Kyoto. Il suo approccio è cambiato radicalmente dopo la mala sorte toccata a Game Cube, cercando via traverse (per lo più di successo) per conquistare il pubblico. Ma adesso il mercato sta cambiando nuovamente e i giocatori, come si evince, sembrano attirati dal nuovo Eden offerto dalle nuove tecnologie.
L’avvento di Google Stadia dunque, sembra aver messo tutti sull’attenti, e fare un passo falso adesso decreterebbe un avvio difficoltoso e un gap difficilmente colmabile negli anni a venire. Microsoft, Sony, Apple e Nintendo, sono pronte a darsi battaglia portando la loro visione del futuro in un mercato che aveva disperatamente bisogno di una reale novità. La novità è arrivata, e non vediamo l’ora di entrare in un mondo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza.